Riflettendo sul concetto di modernità, mi è tornato in mente un scritto dell’antropologo francese Marc Augè, che nei primi anni novanta conia due termini oggi ormai metabolizzati, e che penso possano essere un buono spunto di riflessione per tutto il corso Caad 09.
Augè teorizza per la prima volta il concetto di NONLUOGO, ossia “quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi, frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce, sia i mezzi stessi di trasporto, ma anche supermercati e grandi catene alberghiere”.
Caratterristica di questi nonluoghi è di non lasciare alcuna traccia sulle migliaia di persone che ne condividono lo spazio e viceversa ne rimangono pressochè invariati al loro passaggio. Sono sedi di transito e non sedi di eventi: mi vengono in mente i grandi spazi commerciali delle stazioni o degli areoporti, i centri commerciali e ikea, luoghi in cui è possibile compiere simultaneamente più azioni provvisiorie e fruire degli stessi prodotti presenti in qualsiasi parte del mondo. Nonluoghi in cui l’unica presenza del passaggio di un individuo è regolata da un’economia legata dal modello informatico.
Qui l’Information Technology assume un ruolo chiave e determinante: regola la presenza e lo svolgimento di ogni attività in questi nonluoghi, divenendo in alcuni casi parte strutturante di questo processo.
Partendo da un concetto di modernità ben codificato, inteso come “presenza del passato nel presente che lo supera e lo rivendica”, e a mio avviso non lontano da ciò che stiamo approfondendo parlando di IT, Augè definisce la surmodernità (dal francese surmodernité, o anche supermodernismo) come produttrice di nonluoghi antropologici , poichè recide ogni legame con i luoghi antichi, che divengono “episodi particolari ed esotici”.
Questa dimensione trova la sua completa espressione nei nonluoghi proprio per le loro caratteristiche di transitorietà e simultaneità, in cui anche il ruolo dell’immagine e della parola perde ogni connotazione e diviene l’unica relazione possibile con lo spazio esistente: i nonluoghi che frequentiamo quotidianamente, in cui facciamo la spesa o aspettiamo la metro, si esprimono attraverso un linguaggio codificato in simboli “in modo prescrittivo, proibitivo o informativo”, e che interagisce solo in maniera univoca con l’individuo stesso.
Lavorare su questi spazi non definiti e ibridi, a mio avviso è un’interessante sfida per l’architetto contemporaneo, nell’ottica in cui, come ricorda Augè, la vera sfida consiste non nel creare spazi geometrici, ma spazi antropologici, in cui l’uomo possa vivere un’esperienza di relazione con il mondo e con l’ambiente in cui è situato.